Sulla condizione del lavoro in architettura

Scrissi insieme a Mauro Sullam e Riccardo Villa, nel 2016, un libro di poco successo su questo tema, Backstage. L’architettura come lavoro concreto. Evidentemente i tempi non erano maturi, perché il libro vendette davvero pochissime copie. Tuttavia, rimane l’unico testo recente che ha provato a inquadrare la condizione del lavoro dell’architettura, e più in generale il processo produttivo che conduce alla realizzazione di un’opera edilizia.

Oggi non è cambiato nulla da allora. Ci occupammo di questo tema perché ci investiva personalmente e ci rendevamo conto del fatto che il quadro generale fosse inaccettabile, e non l’avevamo capito finché non ci ha investiti: era il 2014, si sentiva ancora moltissimo il lascito della crisi del 2008. Alla fine, proprio a causa della condizione del mercato del lavoro, io decisi di non praticare la professione (devo ammettere, anche perché non avevo grandi doti progettuali).

Per provare a mettere in ordine alcuni punti su questo argomento enorme e per nulla semplice, ho pensato di provare a fornire degli spunti di ragionamento sullo stato del mercato del lavoro, a grandi linee, anche un po’ sulla base di temi che muovono il mio interesse da anni:

– anzitutto, in Italia è attivo un numero di studi e un numero di collaboratori estremamente ampio (1/3 degli architetti europei), soprattutto medio-piccoli, frutto di una cultura promossa anche dalle moltissime facoltà diffuse nel territorio (erano 27 nel 2016);

– dopo la crisi del 2008, il mercato dell’architettura non è più tornato alle condizioni precedenti, anche se oggi è molto migliorato, e nel frattempo però si è assestato un equilibrio basato sullo sfruttamento del lavoro delle persone che lavorano in questo ambito;

– a questo si aggiunge che le competenze dell’architetto sono per molte parti condivise con altre figure professionali: gli ingegneri da un lato – che “ti firmano anche le strutture” – e geometri dall’altro – che comunque costano meno. Sono convinta che questo quadro necessiterebbe di una riformulazione importante per ovviare alla svalutazione del mestiere, e al mancato riconoscimento di una specificità di competenze, che conduce conseguentemente alla non corrispondenza tra la spinta culturale formativa e il ruolo sul mercato del lavoro.

In generale, gli ordini, tra le altre cose, hanno il compito di tutelare gli interessi della collettività degli iscritti. La collettività degli iscritti però, possiamo dire che oggi non ha gli stessi interessi al suo interno, e questo conflitto interno è piuttosto evidenteProprio l’altra sera si facevano discorsi, durante la presentazione del vademecum realizzato dall’Ordine di Milano, riferiti alla cosiddetta “categoria degli architetti”. A me sembra piuttosto chiaro che stiamo parlando di almeno due categorie, che hanno necessità e orizzonti diversi: da una parte ci sono i titolari di studi, dall’altra i collaboratori/finte partite IVA.
Allora in questo senso inviterei a ragionare sulla possibilità di ripensare l’impostazione, così com’è oggi, degli ordini degli architetti i quali, per esempio, si nutrono di 156 mila iscritti e di questi però sarebbe interessante sapere quanti sono partite iva solo perché non gli è mai stato proposto un contratto di lavoro, e non sarebbero affatto iscritti all’ordine se fossero assunti dai loro datori di lavoro. La cifra senz’altro sarebbe notevolmente ridimensionata.

Non vi è dubbio che le difficoltà economiche siano reali per gli studi professionali, ma ciò non giustifica che il rischio d’impresa e il mancato margine di guadagno – qualunque sia la sua origine, il mercato al ribasso, le parcelle, whatever – diventino un problema condiviso con i lavoratori subordinati, sebbene ritenuti collaboratori.

Quindi i fronti, dal mio punto di vista, per quanto riguarda i titolari di studi, sono due:

– se non si vuole / non si riesce ad assumere i collaboratori, va ripensato in toto il tipo di rapporto che si instaura e la richiesta che viene posta, tenendo sempre a mente che il collaboratore è un libero professionista. Inviterei in questo senso i titolari di studi a fare il conto delle ore che questi spendono per lavorare per voi, e a calcolare il valore di un’ora del loro lavoro. Scoprirete che state pagando le persone spesso meno di 5€ lorde l’ora. La differenza tra quel costo e il costo reale della vita è spesso coperto dai patrimoni familiari: ma ci rendiamo conto che in questo modo l’architettura è un lavoro per un’élite? Solo chi ha alle spalle qualcuno che supporta questa importante differenza può farsi strada in questa professione.
Al contempo mi viene da dire che se non c’è sostenibilità economica nella propria attività, forse qualche domanda bisognerebbe farsela;

– l’altro fronte su cui andrebbe impostata una rivendicazione, soprattutto da parte dei titolari di studio, è la riduzione del costo del lavoro, perché è vostra responsabilità garantire alle persone che lavorano con voi le tutele necessarie, in caso di malattia, di maternità, per quanto riguarda le ferie e la precarietà (peraltro reciproca) del lavoro.

L’altra lotta che sarebbe urgente impostare è la richiesta di maggiori tutele per le partite iva, condizione sempre più diffusa nel nostro paese, anche al di là delle finte partite iva, e che viene ancora oggi inquadrata come una condizione privilegiata, cosa che evidentemente non è più per moltissimi.
L’altra sera si diceva che dopo la crisi del 2008 anche lavoratori dipendenti sono stati licenziati (come a dire poco cambia se sei assunto): ebbene sì, un contratto di lavoro non implica che in caso di impossibilità di pagare i propri dipendenti questi non possano essere licenziati. Ma un licenziamento implica un sussidio di disoccupazione e un preavviso. Ben diverso dal dover chiedersi alla fine di ogni anno “chissà questa collaborazione che destino avrà”.

Ci sarebbe anche un importante tema relativo alle disparità di genere nell’ambito dell’architettura che andrebbe approfondito, su cui non mi soffermo, ma è per dire che il quadro è molto complesso, non c’è una soluzione immediata abbracciata la quale poi abbiamo risolto tutto, ed è, secondo me, attraverso un’indagine seria sullo stato della professione che si può impostare una prospettiva di miglioramento reale.

In ogni caso, vorrei concludere dicendo che mi fa piacere che i giovani lavoratori dell’architettura abbiano molta più consapevolezza nei confronti di questi temi e dei propri diritti di quanta ne avesse la mia generazione, e una prova di questa consapevolezza è il fatto che le code di potenziali collaboratori disposti a farsi pagare pochissimo fuori dagli studi professionali si stanno finalmente assottigliando. E questo è certamente il primo importante passo.

Questo testo è l’intervento che ho portato in occasione dell’incontro Il lavoro in architettura, presso la Triennale di Milano il 24 marzo 2023.