di Florencia Andreola
Pubblicato su DiTe, Aisre, l’11 gennaio 2023
Lo sguardo di genere sulla città e sull’architettura, nel momento in cui entra nello spazio domestico e si interroga sul suo ruolo nella vita delle donne, scopre un cuore pulsante di temi che convergono ed acuiscono le disparità, proprio lì, dove le donne sono state confinate per la maggior parte delle loro vite, e dove ancora oggi si narra siano più al sicuro che nello spazio pubblico.
Non ci soffermeremo qui sul dato che mostra proprio come la casa sia in realtà il luogo meno sicuro per le donne, ma è un’informazione che non va in ogni caso dimenticata nel momento in cui si prova a ragionare sul ruolo che lo spazio domestico ha avuto in passato e ancora oggi ha per il genere femminile, sia da un punto di vista simbolico, sia da uno estremamente concreto. Già di per sé, la radice del termine “domestico”, domus, dà origine a parole che denotano un controllo potenzialmente violento: il dominus, “il padrone di casa”, e tutte le sue declinazioni legate al concetto di dominio.
La domesticizzazione della donna mediante l’attribuzione di una presunta maggiore propensione nella gestione dei lavori domestici ma anche nella decorazione della casa è, sin dalla sua nascita, un processo essenziale per la sopravvivenza del capitalismo. La casa diventa da subito e in maniera sempre più consolidata il nido d’amore e di privacy, la sfera di pertinenza femminile e il luogo protetto che va curato, pulito, arredato e abbellito. È nella casa che si esprime un modello di vita basato sul nucleo isolato della famiglia, reso desiderabile nonostante il prezzo che comporta: debiti, spese, ma anche isolamento e lavoro non retribuito socialmente invisibilizzato, che per decenni ha rappresentato l’unica occupazione della maggior parte delle donne occidentali.