Uno sguardo femminista sulla città

pubblicato su Collettiva.it il 29 luglio 2021

Orientare uno sguardo di genere sulla città come pratica di osservazione analitica rende presto evidente come i luoghi che viviamo quotidianamente nascano intorno a un modello maschile e ancora oggi continuino a essere principalmente di pertinenza degli uomini. La donna, nello spazio pubblico, emerge infatti come soggetto reso invisibile, a cui la città non risponde offrendo soluzioni bensì ponendosi come piattaforma standardizzata alla quale adeguare le proprie necessità.

Le differenze di genere nella società contemporanea – che si riflettono poi sugli usi della città – si ancorano ai ruoli socialmente determinati, e vedono le donne ancora oggi come principali responsabili del lavoro di cura. Ciò le vincola conseguentemente allo spazio domestico, o le costringe all’assolvimento di due forme di lavoro, una retribuita e l’altra no. Gli uomini, al contrario e con tutti i problemi che a sua volta questo comporta, sono ancora oggi intrappolati nel ruolo di responsabili della vita economica della famiglia, a loro volta “vittime” di uno stereotipo che impone loro di aderire a un modello precostituito.

Proprio queste rappresentazioni di genere sottintendono un uso della città differente da parte di uomini e donne. Gli impegni dati dal lavoro di cura (retribuito o non) implicano infatti un utilizzo dei servizi e dei percorsi urbani molto peculiare: gli spostamenti dei/delle caregivers tendono a non seguire il pattern classico del pendolarismo, ma un tipo di mobilità più segmentata e locale. Inoltre, per quanto la città abbia da un lato significato per le donne la possibilità di essere libere e anonime, dall’altro lato è sempre stata luogo di espressione della proprietà maschile.

Anche le donne sono considerate appartenenti a tale proprietà: la loro esperienza nello spazio pubblico è infatti significativamente diversa e vincolata alle aspettative esterne (sull’abbigliamento, sul modo di muoversi, sui luoghi in cui si è e in quali orari). L’esperienza urbana femminile, sin dall’adolescenza, è profondamente determinata dalla struttura patriarcale nella quale ci muoviamo quotidianamente. Questi aspetti si rispecchiano perfettamente nella pericolosità – reale o percepita – dello spazio pubblico; dove il pericolo per una donna si traduce esclusivamente nella potenziale aggressione maschile. La pianificazione della città consiste nel prevederne i suoi usi, decidere in forma astratta come saranno organizzate le vite dei suoi abitanti, interpretare i flussi, le necessità, l’organizzazione quotidiana delle vite delle persone che attraverseranno quelle strade e quegli spazi.

L’urbanistica, tuttavia, è un mero strumento, e come tale può essere utilizzato in molti modi differenti; al contempo essa risponde a un modello sociale figlio del proprio momento storico: come tutte le cose, non fa altro che rispecchiare la struttura della società. Tuttavia, “quando i pianificatori non tengono conto del genere, gli spazi pubblici diventano di default spazi maschili” (Caroline Criado Perez, Invisibili. Come il nostro mondo ignora le donne in ogni campo. Dati alla mano, Einaudi, 2020, p. 76). Ogni cosa pensata, progettata, concepita secondo uno standard fa infatti – più o meno consapevolmente – riferimento a uno standard maschile.

Questa “universalizzazione” dello standard non è altro che la riproposizione mascherata del vero soggetto di diritto, l’uomo bianco eterosessuale e cisgender, che definisce i bisogni propri come neutri, dimenticando tutto ciò che uomo non è. Il pensiero urbanistico del Novecento, che ha dato forma alle nostre città, si sviluppava intorno al modello funzionalista. Basato sulla teoria della zonizzazione, il funzionalismo suddivideva i quartieri e diversificava gli edifici in base alle funzioni ritenute essenziali: residenza, lavoro, tempo libero, rete infrastrutturale. Nessuna analisi della vita quotidiana degli abitanti supportava questa pratica: la pianificazione “modernista” calava dall’alto un modello di vita che definiva gli aspetti essenziali dentro a una rigida griglia di funzioni.

Lo sguardo femminile, a partire dagli anni Sessanta, sposta invece gli orizzonti mediante un approccio completamente diverso rispetto alla tradizione maschile che imponeva soluzioni top down. È proprio dal basso, dalle vite dei cittadini, che le ricerche femministe muovono, riformulando il paradigma della pianificazione urbana. In questo senso, esse producono un sapere inalienabile; l’esperienza personale e gli eventi della vita stanno al centro di questo tipo di osservazione e influenzano le ricerche e l’interpretazione dei risultati.

Il riconoscimento dei bisogni dei differenti target, sia per genere sia per età, ma anche per abilità o disabilità, sono il presupposto essenziale: la città deve essere in grado di rispondere alle esigenze di tutte e tutti. Se questo non avviene è perché la pianificazione degli spazi urbani ripropone una struttura patriarcale su cui la società si fonda e, conseguentemente, porta in sé l’esclusione delle donne dallo spazio pubblico: ancora oggi, infatti, viviamo in una condizione in cui i corpi femminili sono – almeno nell’immaginario – relegati allo spazio domestico e ancorati al desiderio sessuale maschile.

Lo spazio dunque non è neutro, come hanno cercato di farci credere: lo spazio è abitato da corpi sessualizzati che hanno differenti esperienze della città e dei territori, con differenze nei modi di vivere e di muoversi per la città. Questa differenza è evidente in tutte le fasi della vita e in base alle diverse abilità: infanzia, adolescenza, vita adulta, vecchiaia” (Teresa Boccia, Habitat III: Theories and Practices of the Women Facing the Global Challenges in Cities,  Tria, Territorio della ricerca su insediamenti e ambiente 9 (1): 18, 2016).

È per questo che l’osservazione delle vite quotidiane come strumento di pianificazione delle città è l’unica strada da percorrere per poter rispondere effettivamente alle esigenze di tutte e tutti. Anche e soprattutto per ovviare al fatto che gli spazi urbani sono spesso frutto di progetti che non hanno considerato le esperienze e l’utilizzo delle donne, dei bambini, degli anziani durante il giorno e la notte. È da qui che è necessario ripartire, soprattutto nel nostro paese nel quale lo stato della ricerca sulla pianificazione di genere verte in una condizione di profonda arretratezza, che si riflette in tutti gli aspetti della vita quotidiana.

Florencia Andreola e Azzurra Muzzonigro, Sex & The City, Milano